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La difficoltà di essere se stessi – Blue Flag di KAITO

   

Tantissimi manga affrontano l’adolescenza ma “Blue Flag” non è la solita storia d’amore. È, prima di tutto, una piccola riflessione sulla società contemporanea giapponese e poi, un’analisi attenta sui dubbi che attanagliano tutti i ragazzi tra gli 11 e i 18 anni che si trovano a dover fronteggiare, tra le altre cose, la propria sessualità

“Chi sono io veramente?”

Ahhhh, gli anni del liceo. Gli anni in cui la quotidianità era cercare di capire cosa Dante avesse voluto intendere in quel verso dell’Inferno, come le reazioni chimiche facessero a spiegare le leggi della natura e come il Diritto fosse diventato uno strumento perfetto per facilitare la comprensione degli articoli della Costituzione Italiana. Anni veramente particolari che ciascuno ha attraversato e vissuto modo diverso: c’è chi li ricorda con profonda nostalgia, chi non ha nessuna reazione se non una completa indifferenza e chi li ripudia totalmente e li considera il peggior periodo della propria vita. Seppur io personalmente mi sentirei di collocarmi nell’ultima categoria per una serie di motivi (non per niente, appena conclusi gli studi del Liceo ho deciso di spostarmi in un’altra città per continuare con quelli universitari), tutti questi racconti possono essere accomunati da un unico minimo comune denominatore: la paura per il futuro.

La scuola superiore, almeno in Italia, copre degli anni a dir poco traumatici nella vita degli individui, che sono quelli della piena adolescenza in cui ci si trova a dover imparare a familiarizzare con un corpo che diventa sempre più peloso, con una voce sempre più matura e con la scoperta dell’amore e del sesso. Tutti punti più o meno determinarti che, nel loro complesso, segneranno il passaggio dall’infanzia all’età dei giovani adulti.  Ecco, dunque, che inizieranno nella loro testa a saltar fuori domande del tipo “Ma cosa voglio veramente dalla mia vita?” oppure “Chi ho intenzione di diventare?” e, soprattutto, “Che nome dare ai miei sentimenti?”.

Giovani contro la società giapponese: scontro tra diverse realtà

Queste e molte altre domande, sono poste all’interno di “Blue Flag”, un manga di 8 volumi pubblicati tra il 2017 e il 2020 in Giappone da KAITO (autore di cui non sono riuscito a trovare nessuna informazione online se non che è nato nel 1984) e arrivato in Italia grazie a Planet Manga. All’interno di questa commovente storia che mischia sapientemente dramma e commedia, si muovono tre giovani ragazzi che si troveranno ad affrontare il loro Mirai未来, il loro “ciò che non è ancora arrivato”. In una parola, il Futuro. Questi sono: Taichi Ichinose, un ragazzo introverso dall’animo spesso pessimista, Futaba Kuze, impacciata ma estremamente gentile nei confronti del prossimo e Toma Mita, alto e belloccio,  asso della squadra di Baseball della scuola. I tre si troveranno tutti ad interrogarsi su un tema fondamentale: “Che cos’è l’amore?”. Naturalmente, ognuno proverà a dare, a modo suo, una risposta a questo interrogativo molto importante e profondo e con non poche difficoltà. La risposte, però, sembrano confluire tutte in un’unica affermazione: “Amore significa voler vivere in libertà”.  L’opera di KAITO, infatti, attraverso le lacrime e le storie travagliate dei suoi personaggi, sembra rimproverare alla rigida e tossica società giapponese che di non permettere ai propri cittadini di esprimere la loro personalità, costringendoli a rimanere chiusi in una sorta di gabbia che impedisce loro di entrare in contatto con il mondo.

Sì, perché “Blue Flag”, oltre ad essere una storia d’amore, contiene in sé anche un risvolto importante, vale a dire la sfumatura LGBT. Si sospetta per tutta di alcuni personaggi ma, almeno fino alla seconda metà della storia, si lascia al lettore la possibilità di valutare la situazione per poi metterlo davanti al tema attualissimo del Coming Out e delle conseguenze che esso può portare, in questo caso, un ambiente come quello scolastico. Qui le figure adulte rimangono sullo sfondo e il focus della narrazione è interamente incentrato sui giovani. Pettegolezzi, dubbi, interrogativi… le parole volano di bocca in bocca e i compagni dei tre ragazzi non diventano altro che lo specchio della società giapponese che, ancora, è molto arretrata su questo genere di temi.

A tal proposito, ho già affrontato il discorso della natura per niente open-minded della società giapponese nell’articolo in cui ho trattato un altro manga, “il Marito di Mio Fratello” di Gengoroh Tagame. Se volete approfondire, cliccate qui. Emblematica, Sono le frasi di Kensuke Masuo, uno dei compagni di classe, che riassume in sé ciò che è proprio la chiusura mentale giapponese, rivolgendo parole di disprezzo sia verso i ragazzi che le ragazze che afferma: “Non riesco a vedere né lei né voi come amiche femmine[…]Siete e rimanete […] un possibile obiettivo amoroso” e, sullo stesso piano “Non riesco a capire l’amore tra maschi”.

Quando la maggioranza diventa soffocante

Vivere come membro di una minoranza, soprattutto in una società che si dimostra particolarmente contraria a determinati ideali, può essere un problema molto serio per queste persone perché porta a quello che viene comunemente definito con il nome di Minority Stress ovvero lo “Stress da Minoranza”, come ha appunto osservato nel 1995 Ilan H. Meyer (1956). Questa condizione viene vissuta con estremo disagio dalla persona LGBT e può essere sia di tipo soggettivo che di tipo oggettivo. Se vissuta a livello soggettivo, ciò comporta una non completa accettazione della propria persona che può produrre fenomeni di Omofobia Interiorizzata (ovvero, odiare sé stessi per come si è e, di conseguenza, tutti coloro che si dichiarano appartenenti alla comunità). Se vissuta a livello oggettivo, invece, può sfociare in discriminazioni sociali: la persona accetta il proprio essere ma la società no. Questo, purtroppo, può essere il preludio alla messa in pratica di gesti estremi da parte della persona, in quanto si sente valutata in base al proprio orientamento e non in base al modo in cui si relaziona con gli altri. Ovviamente, gli ambienti discriminatori possono essere molteplici: nel lavoro, nell’acquisto o affitto di un immobile e così via.

Fuggire, rimanere, trovare sé stessi

Oltre a mettere in risalto la questione LGBT, voglio anche ritornare sui disagi adolescenziali e, riguardo a ciò, neanche a farlo apposta, qualche giorno fa ho visto un film davvero molto interessante che mi ha fatto rivivere alcuni momenti del mio passato. Il film in questione è “Lady Bird”, un film del 2017 candidato a ben cinque Premi Oscar e, purtroppo, vincitore di nemmeno una statuetta, che racconta la storia di Christine McPherson (Lady Bird per gli amici), una ragazzina che si trova all’ultimo anno del liceo, proprio come i protagonisti di “Blue Flag” che, nonostante non sia di origini benestanti (il padre ha perso da poco il lavoro, la madre è una semplice infermiera), sogna di trasferirsi da Sacramento, la sua città di origine, per andare alla prestigiosa università di New York.

Anche in questo film c’è una piccola sfumatura LGBT ma anche in questo caso non vi farò menzione di quale personaggio viene coinvolto perché altrimenti vi rovinerei una parte della pellicola ma, anche qui c’è la paura di non essere accettati per quelli che si è e, cosa ancora peggiore, l’invito al silenzio e all’omertà per non creare dispiacere alla propria famiglia. L’ambientazione è del 2002, quindi comunque un periodo in cui ancora era particolarmente difficile parlare apertamente di omosessualità. Christine, come adolescente, si struggerà per amore, compirà azioni pericolose, proverà ad attirare l’attenzione delle persone più benestanti della sua classe ma alla fine comprenderà una lezione importante: che non si può scappare dal proprio passato. Un po’ una sorta di “ideale dell’Ostrica” di verghiana memoria ma con conclusioni diverse. Ancora una volta, se vi interessa indagare sul tema, consiglio la visione della pellicola.

Conclusione

Anche stavolta siamo arrivati alla fine ma voglio prima inserirvi una bellissima riflessione di Sarah-Jayne Blakemore (1974-), docente di Neuroscienze cognitive presso lo University College di Londra,  che, a proposito del suo libro Inventing Ourselves: The Secret Life of the Teenage Brain, sottolinea un aspetto non di poco conto: “Tendiamo a demonizzare gli adolescenti più di chiunque altro nella società e non è giusto. Stanno attraversando un passaggio essenziale della loro vita. La maggior parte degli adulti non ne è cosciente.”  Ecco perché è facile che, purtroppo, la questione venga presa sotto gamba. Ma l’obiettivo dell’educazione e della famiglia deve essere uno e uno soltanto: genitori e figli devono imparare e a crescere insieme. Non si devono costruire muri ma ponti.

Scritto da Roberto B.

Un late Millennial cresciuto a pane e Musica Metal
Appassionato di romanzi, letteratura italiana e straniera, Manga e Anime

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